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Negli ultimi anni termini come “woke” e “cancel culture” sono entrati nel lessico politico e mediatico con un significato quasi sempre distorto. Nati come strumenti di consapevolezza e contestazione sociale, sono stati trasformati in slogan polemici, utili a ridicolizzare chi chiede rispetto e diritti. Il risultato è un ribaltamento del senso originario da parte di quella destra estrema che oggi, divenuta mainstream, utilizza la retorica della libertà di parola per giustificare invece nuove forme di censura autoritaria.
In questo contesto, è fondamentale tornare alle origini di quei concetti, capire come sono stati distorti e riflettere sul ruolo che il linguaggio svolge nelle nostre democrazie.
L’origine del movimento woke
Il termine woke nasce nelle comunità afroamericane come invito a “restare svegli”: consapevoli delle ingiustizie e attenti verso chi subisce discriminazioni. Il suo obiettivo autentico era (ed è) semplice e radicale allo stesso tempo: chiedere rispetto, cura e attenzione verso le persone più vulnerabili, contro razzismo, sessismo, omofobia e altre forme di esclusione.
Come è stato travisato
Con il tempo, il concetto di “woke” e, insieme, quello di “cancel culture” sono stati travisati e manipolati, soprattutto dall’estrema destra americana e poi anche in Europa.
Woke è diventato un insulto: i conservatori hanno iniziato a deridere chi chiedeva rispetto, chiamandoli snowflakes — che possiamo rendere in italiano come “mammolette”, incapaci di reggere la critica o lo sberleffo. I “fragilini” incapaci di sostenere la durezza della vita.
La “cancel culture” è stata dipinta come una “dittatura del politicamente corretto”, una minaccia alla libertà di parola. In realtà, come spiegano bene questo articolo e quest’altro, si trattava spesso di forme di contestazione sociale o culturale dal basso, non di censura istituzionale.
Molte volte era anche una forma di pressione collettiva (boicottaggio, ritiro di consenso), che veniva poi rappresentata da chi si opponeva come una “nuova inquisizione”, distorcendone senso e obiettivi.
Dietro questa narrazione tossica, l’obiettivo era chiaro: difendere i privilegi. Rivendicare il “diritto” a usare un linguaggio violento e offensivo che mette a rischio vite ed espone soprattutto le fasce più fragili e vulnerabili della società, senza subirne conseguenze.
Il ribaltamento spudorato dell’estrema destra al potere
Ed eccoci al cortocircuito. La stessa estrema destra che per anni ha deriso il movimento “woke” e ha gridato contro la “cancel culture” oggi, una volta diventata mainstream e al potere, non propone un eventuale boicottaggio ma una vera e propria censura autoritaria: chiede licenziamenti, intimidisce chi osa criticare i suoi leader, reprime il dissenso. Censura la satira, minaccia ritorsioni economiche.
Ieri denunciavano la “dittatura del politicamente corretto”, oggi questa destra estrema e violenta vuole imporre una dittatura istituzionale e punitiva, rivolta esclusivamente ai suoi avversari, visti unicamente come nemici da abbattere. Il discorso di Trump al funerale di Charlie Kirk non lascia dubbi: l’odio come arma politica per generare consenso e rafforzare il potere.
Non si tratta più di discussioni sul “politicamente corretto”: qui siamo di fronte al tentativo di zittire voci critiche attraverso strumenti autoritari.
🧵 Lo speech del reverendo Howard-John Wesley sulla morte di Charlie Kirk
— Valigia Blu (@valigiablu.it) 22 settembre 2025 alle ore 10:03
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Il linguaggio e la democrazia
Come scriveva Zagrebelsky nel libro ‘Sulla lingua del tempo presente’, dovremmo richiamare l’attenzione sull’importanza del linguaggio in uso, data la sua forza conformatrice del senso comune, operante anche senza che ce ne accorgiamo:
“Dietro le parole si affaccia una visione delle cose, una filosofia, un credo religioso, un punto di vista, insomma una cultura, intesa come insieme delle conoscenze, delle credenze, del costume e di qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dell'uomo come membro di una società” (G. Beccaria, Tra le pieghe delle parole. Lingua storia cultura).
Parlando di parole, dunque, parliamo non di me o di te, ma di noi.
“La lingua può essere dotazione del potere, che se ne avvale per rendere omogenee le coscienze e governarle, massificandole… (oppure) può essere strumento di coscienze che elaborano forme comunicative di resistenza all'omologazione. Il linguaggio acriticamente accettato esercita qualcosa come una dittatura simbolica…”
La libertà di parola è un pilastro della democrazia. Ma se viene esercitata senza empatia e responsabilità, è uno strumento cieco.
Senza empatia e responsabilità, la libertà di parola non libera: infligge dolore ai più vulnerabili e fa da scudo ai potenti.
Immagine in anteprima: frame video SkyNews via YouTube