Cari Zaia, Giorgetti, Fontana eccetera, voi che chiedete al generale di rifarsi ai valori fondati del Carroccio, non vi siete accorti di militare in un partito…
di Pietro Salvatori
“Vannacci può essere un valore se fa il leghista”, dice Luca Zaia, governatore del Veneto, che non crede che il generale sia il futuro della Lega per i prossimi dieci anni: “Perché dovrebbe esserlo? In Lega abbiamo un sacco di persone in gamba, i segretari si scelgono nei congressi e coinvolgono il popolo della Lega”. Massimiliano Romeo, capogruppo del Carroccio al Senato, richiama al “rispetto” per “la storia della Lega, le nostre regole e i nostri valori: la differenza con i nostri alleati la facciamo con la difesa dei nostri territori, altrimenti è dura”. A Maurizio Fugatti, presidente del Trentino, non è che vadano molto giù le paccottiglie vetero-fasce del suo vicesegretario, dall’esaltazione della X-Mas in giù, e ricorda come i valori federalisti del suo partito siano “anticomunisti e antifascisti”. L’influentissimo ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, fa un sibillino richiamo “alla gerarchia”, il collega al vertice della Lombardia, Attilio Fontana, esplicita il concetto e dice di non voler morire “vannaccizzato”. Riccardo Molinari, capo dei deputati in cravatta verde (esiste ancora?) sottolinea che “noi siamo quelli di Alberto da Giussano”, e che non hanno “bisogno di nessun cambiamento, né di rifarsi a ideologie che nulla c'entrano con la nostra storia”.
E insomma c’è tutto questo gran dimenarsi dei leghisti cresciuti alla scuola di Umberto Bossi, un continuo richiamare ai valori fondanti dell’autonomia, del federalismo, dei territori, della libertà e dell’avversione a comunismi e fascismi che sono stati la cifra del partito in canotta che fu.
Peccato che oggi siano nel partito sbagliato. Lo ha certificato Pontida, lo si scorge ormai da tempo. Il significato simbolico di quel pratone, l’ampolla della sorgente del Po, sono ormai vestigia di un passato che non c’è più, sotto il palco e la sera in discoteca giovani e meno giovani intonano cori contro l’Islam e per la remigrazione, anche di chi ha la cittadinanza ma non passa il vaglio di conformità agli usi&costumi italici. Il parallelismo storico dei Comuni che si ribellarono all’impero “centralizzato” dal Barbarossa è stato sostituito dalla Lepanto cristiana che fermò il nemico alle porte, l’invasore musulmano.
Più in generale Matteo Salvini ha da tempo ricollocato la Lega come partito nazionale che deve mediare tra le istanze e le richieste di un elettorato che ormai lo segue anche ben al di sotto della sponda meridionale del Rubicone. Ma soprattutto lo ha trasformato in un partito di destra – di estrema destra, direbbe qualcuno – perfettamente allineato con gli omologhi europei e non al centro delle battaglie culturali del nostro tempo.
Un partito che predica “la difesa dell’Occidente” e insieme rivendica l’abbandono delle frontiere europee dell’Ucraina davanti all’invasore, che celebra le manifestazioni degli ultra-nazionalisti inglesi con buona pace degli indipendentisti nordirlandesi cari a Bossi e ai compagni delle prima ora, solo per dirne due sentite dal palco di ieri.
Zaia, Molinari, Romeo, Fugatti, Giorgetti, Fontana e tanti altri nel partito si appellano in fin dei conti alla salvaguardia di quell’etnoregionalismo con cui il Senatùr si infilo con successo in anni in cui le ideologie crollavano e la storia sembrava sul punto di finire. Si appellano a una Lega che non esiste più.
Sono mesi, forse anni, che combattono questa battaglia. Ma l’hanno già persa. La Lega di oggi è quella delle migliaia di magliette “vannaccizzate” sul pratone di Pontida, delle strizzate d’occhio al Ventennio del generale che ha lanciato un’opa sul partito, dei suoi circoli del Mondo al contrario che incalzano la “gerarchia” cara a Giorgetti, delle braccia tese dei militanti al solo vederlo, di un leader che vede il proprio futuro e quello del partito nell’internazionale sovranista, che sbandiera parole d’ordine apprezzate in Europa e nel mondo da chi appunta sul petto come medaglia l’etichetta di estremista di destra.
È la linea di Salvini da anni, quella che gli ha permesso di risollevare il Carroccio dal trevirgola per cento da dove l’aveva raccolto e portarlo agli exploit elettorali e, di nuovo al governo. È la linea delle ultime nomine, per acclamazione o giù di lì, dei vicesegretari Vannacci e Sardone, due lontani dal nord e dalle sue istanze, due espressioni dell’ala più identitaria del partito. Nomine sulle quali i nostri eroi hanno borbottato o poco più, senza opporsi veramente, senza proporre un’alternativa.
Cari Zaia, Molinari, Romeo, Fugatti, Giorgetti, Fontana e tanti altri, quel che rivendicate già da tempo non è più il partito che predicate. E non avete fatto poi molto perché così non fosse. Ma, probabilmente, voi questo già lo sapete.