
L’Unione Europea, nel tentativo di sganciarsi dalla dipendenza energetica dalla Russia, ha stretto accordi record con gli Stati Uniti per l’importazione di gas naturale liquefatto e altre fonti fossili. Questa scelta, presentata come una strategia di sicurezza, rischia però di sostituire una dipendenza con un’altra, minando l’autonomia strategica europea e sollevando dubbi sulla sostenibilità economica e ambientale.
Dalla Russia agli Stati Uniti: una dipendenza che cambia volto
Dal 2022, l’Europa ha dimezzato la propria dipendenza dal gas russo, passando dal 40% a meno del 15% delle importazioni totali. Tuttavia, il definitivo azzeramento dei flussi da Mosca resta una sfida tecnica e politica, aggravata da infrastrutture non sempre pronte ad accogliere nuove fonti di approvvigionamento.
Gli Stati Uniti hanno colto l’occasione, offrendo il proprio gas naturale liquefatto (GNL) come soluzione immediata. Nel 2025, per la prima volta, le importazioni europee di GNL dagli USA hanno superato quelle via gasdotto, segnando un cambio di paradigma energetico[1][3].
Questa transizione, però, rischia di spostare il baricentro della dipendenza: non più verso est, ma verso ovest, con Washington pronta a diventare il nuovo fornitore dominante.
Un accordo miliardario che mette a rischio l’autonomia strategica
L’UE ha firmato con gli Stati Uniti un’intesa triennale da 750 miliardi di dollari per l’approvvigionamento di energia, comprendente GNL e combustibile nucleare[1]. Secondo alcune stime, per rispettare questi impegni, l’Europa dovrebbe arrivare a dipendere dagli USA per il 70% delle proprie importazioni energetiche[2].
Questa scelta, motivata dalla necessità di diversificare le fonti e garantire la sicurezza, rischia di creare una nuova forma di vulnerabilità: affidarsi a un unico partner commerciale, peraltro extraeuropeo, significa sacrificare la tanto sbandierata autonomia strategica.
L’Istituto di economia energetica e analisi finanziaria (IEEFA) ha definito l’accordo energetico UE-USA "irrealizzabile" e in contrasto con gli obiettivi del Green Deal, poiché comporta un massiccio investimento su combustibili fossili e un aumento delle emissioni[2].
Costi economici e ambientali: chi paga il prezzo della dipendenza?
Nonostante la promessa di maggiore sicurezza, il prezzo del gas in Europa resta elevato rispetto ai livelli pre-crisi, senza benefici tangibili per consumatori e imprese[1]. Il GNL statunitense, inoltre, è più costoso rispetto al gas via tubo e meno compatibile con gli obiettivi climatici europei.
La scelta di puntare su fonti fossili americane rischia di rallentare la transizione energetica e di compromettere gli impegni climatici assunti dall’UE. Secondo gli analisti, per rispettare gli accordi con Washington, l’Europa dovrebbe addirittura triplicare le importazioni di petrolio, carbone e GNL dagli USA, una direzione opposta rispetto alle politiche di decarbonizzazione[2].
Il rischio è che la pressione geopolitica finisca per giustificare decisioni che sacrificano sia l’autonomia strategica sia la sostenibilità a lungo termine.
Una scelta davvero inevitabile?
La narrativa dominante presenta la dipendenza dagli Stati Uniti come un male minore rispetto a quella dalla Russia. Tuttavia, questa visione ignora i rischi di una concentrazione eccessiva delle forniture e la perdita di potere negoziale per l’Europa.
Alcuni Paesi membri, come l’Italia, hanno già superato il 45% di importazioni di GNL dagli USA, rendendo Washington il principale fornitore nazionale[1]. Questa tendenza solleva interrogativi sulla reale capacità dell’UE di perseguire una politica energetica autonoma e sostenibile.
La sfida per l’Europa non è solo quella di diversificare le fonti, ma di costruire una vera indipendenza energetica, investendo su rinnovabili, efficienza e innovazione, senza cedere a nuove forme di dipendenza.