
Il precariato diffuso tra insegnanti e ricercatori italiani è diventato un tema centrale e divisivo nel dibattito pubblico. Mentre il governo introduce nuove forme contrattuali e taglia i finanziamenti, migliaia di professionisti vivono nell’incertezza, tra scioperi e fughe all’estero. Le soluzioni proposte sembrano non bastare e il rischio è quello di compromettere la qualità della didattica e della ricerca nel lungo periodo.
Un esercito di precari: numeri e realtà
Secondo le stime più recenti, circa il 40% del personale docente e di ricerca nelle università italiane è costituito da figure precarie: oltre 20 mila assegnisti di ricerca e 9 mila ricercatori a tempo determinato di tipo A (RTD-A)[3].
La situazione è aggravata dalla scadenza imminente di migliaia di contratti: solo nel 2025, circa 30 mila ricercatori e assegnisti rischiano di restare senza lavoro, con prospettive di stabilizzazione quasi nulle[2].
Nel frattempo, la fuga all’estero di giovani talenti continua: negli ultimi dieci anni, circa 15 mila ricercatori italiani hanno trovato occupazione fuori dal Paese[3].
Le nuove forme contrattuali: più diritti o più precarietà?
Il recente contratto di ricerca, introdotto per sostituire gli assegni di ricerca, ha portato alcuni miglioramenti in termini di tutele: malattia, ferie, tredicesima e indennità di disoccupazione sono ora garantite[3].
Tuttavia, questi contratti risultano più costosi per le università, che spesso non dispongono delle risorse necessarie a causa dei tagli ai finanziamenti pubblici.
Il governo ha inoltre introdotto due nuovi contratti senza tutele, una mossa che secondo molti rischia di aumentare ulteriormente l’instabilità lavorativa e di peggiorare la qualità della ricerca[4].
Scioperi e proteste: la risposta del mondo accademico
Il 12 maggio 2025 migliaia di ricercatori, assegnisti e dottorandi hanno aderito a uno sciopero nazionale per chiedere condizioni di lavoro dignitose e investimenti strutturali[1][2].
Le richieste principali riguardano l’aumento dei fondi per il reclutamento e la stabilizzazione del personale precario, con la richiesta di almeno 10 miliardi di euro in più nei prossimi cinque anni[2].
Nonostante le proteste, il governo sembra orientato a introdurre ulteriori figure precarie, invece di investire su posizioni strutturate e di lungo periodo.
Le conseguenze sulla didattica e sulla ricerca
La precarizzazione colpisce direttamente la qualità della didattica universitaria: la scadenza di migliaia di contratti rischia di lasciare scoperti numerosi corsi e attività formative[2].
La mancanza di stabilità lavorativa rende difficile pianificare progetti di ricerca a lungo termine e scoraggia l’innovazione.
Il rischio concreto è che l’università italiana perda attrattività e competitività a livello internazionale, alimentando ulteriormente la fuga dei cervelli.
Un dibattito che divide: tra retorica e realtà
Il tema del precariato divide profondamente l’opinione pubblica e il mondo politico: da un lato, si parla di attrarre talenti e rilanciare la ricerca; dall’altro, le condizioni materiali dei lavoratori restano precarie e insoddisfacenti[1].
Le promesse di nuove indennità e incentivi rischiano di rimanere vuote formule comunicative, incapaci di risolvere i problemi strutturali del sistema.
Il dibattito resta acceso e polarizzato, mentre la realtà quotidiana di migliaia di insegnanti e ricercatori continua a essere segnata dall’incertezza.