A ben guardare, bisogna sottolineare che l’Estonia non dispone di una forza aerea dotata di jet militari sufficienti a reagire autonomamente a violazioni
Le parole che alzano la temperatura:
Primo Ministro estone Kristen Michal
Il premier estone in cui parla apertamente di stabilire “parametri” per abbattere aerei russi se violino lo spazio aereo estone, pur specificando che non si tratta di una decisione automatica. (ERR)
Michal ha aggiunto che la protezione dello spazio aereo estone “deve essere presa seriamente”, e che la risposta futura dipenderà dagli sviluppi: se ci sarà una nuova violazione, i parametri decisi collettivamente all’interno della NATO — e i comandi appropriati — determineranno se intervenire con misure militari (Estonian World).
A ben guardare, bisogna sottolineare che l’Estonia non dispone di una forza aerea dotata di jet militari sufficienti a reagire autonomamente a violazioni dello spazio aereo da parte di aerei russi. Se i Paesi baltici insistono su risposte forti – fino all’abbattimento – ciò significherebbe che sia il personale della NATO, con i propri velivoli, a dover intervenire per “difendere” quei cieli.
Quel che è certo è che in certi momenti la retorica avanza molto più rapidamente rispetto ai fatti: dichiarazioni “abbattere se necessario”, possibili chiusure di Kaliningrad, richieste forti di reazione militare. Tutto ciò crea una pressione costante sul sistema NATO e sull’Unione Europea, inducendo attori più grandi a considerare scenari sempre più pericolosi, mentre i Paesi più piccoli, affetti da storia e paure profonde nei confronti della Russia, sembrano disporre di una leva sproporzionata nel plasmare il dibattito strategico europeo.
Margus Tsahkna (Estonia)
Il ministro degli Esteri estone ha reagito con fermezza allo sconfinamento dei MiG-31, convocando il diplomatico russo a Tallinn e annunciando la richiesta di una riunione straordinaria del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Per l’Estonia, piccolo Paese che confina direttamente con la Russia e che vive con memoria storica le occupazioni sovietiche, questi episodi non sono mai “incidenti”. Tsahkna li legge come parte di una strategia deliberata di Mosca per testare la tenuta della NATO e la rapidità delle sue reazioni. La decisione di portare la questione al Consiglio di Sicurezza è soprattutto simbolica, dato che la Russia può porre il veto, ma dimostra la volontà di Tallinn di usare ogni strumento diplomatico per internazionalizzare il tema e mettere pressione sull’Alleanza.
Petr Pavel (Repubblica Ceca)
L’ex generale della NATO e attuale presidente ceco non è nuovo a dichiarazioni muscolari, ma questa volta ha varcato un confine importante: ha affermato che ogni violazione dello spazio aereo NATO da parte di aerei russi deve poter essere respinta anche con l’uso della forza. Pavel ha ammesso che un simile scenario porterebbe l’Alleanza vicinissima allo scontro diretto con Mosca, ma secondo lui una deterrenza credibile richiede proprio la disponibilità a una risposta immediata e dura. Non è solo retorica: la Repubblica Ceca ha recentemente intensificato la cooperazione militare con Polonia e Slovacchia, posizionandosi come “falco” regionale.
Alexander Stubb (Finlandia)
Il presidente finlandese, eletto pochi mesi fa con un mandato fortemente pro-NATO, ha espresso una visione che va oltre la solidarietà di principio. Secondo Stubb, vere garanzie di sicurezza per Kiev esistono solo se l’Europa accetta l’idea di essere pronta a combattere di nuovo qualora la Russia dovesse tentare un’aggressione dopo un eventuale accordo di pace. Le sue parole sono particolarmente significative perché arrivano da un Paese che, fino al 2022, manteneva una lunga tradizione di neutralità. L’ingresso della Finlandia nella NATO ha ribaltato gli equilibri nel Nord Europa, e la linea di Stubb conferma che Helsinki non vuole limitarsi a “difendere i propri confini”, ma intende essere parte attiva di una strategia di ‘contenimento’ della Russia. In sostanza, Stubb invita gli europei a superare ogni illusione di compromesso stabile: egli sostiene che l’unico linguaggio che Mosca capirebbe è quello della forza.
John Healey (Regno Unito)
Il segretario alla Difesa britannico ha confermato l’entrata in servizio dei caccia Typhoon sopra i cieli polacchi, parte dell’operazione NATO Eastern Sentry. Healey ha insistito sul fatto che i jet hanno regole d’ingaggio chiare, che prevedono la neutralizzazione di droni ostili e velivoli in avvicinamento sospetto, senza esitazioni. La scelta di Londra si inserisce nella tradizione britannica di posizionarsi come primo alleato “pronto al combattimento” quando gli Stati Uniti chiedono maggiore coesione atlantica. Al di là della sostanza militare, il messaggio politico è forte: la Gran Bretagna, uscita dall’UE, dimostra di essere ancora il pilastro della difesa europea, a scapito di una Unione che discute ma non riesce a decidere. In questo senso, Healey ha parlato a Mosca, ma anche a Bruxelles.
Antonio Tajani (Italia)
La posizione italiana, espressa dal vicepremier e ministro degli Esteri, è stata più prudente e articolata. Tajani ha definito “inaccettabile” la violazione dello spazio aereo estone, ribadendo la solidarietà con i partner NATO. Tuttavia, ha aggiunto un elemento di realismo: secondo lui, Putin non ha alcun interesse a scatenare una guerra totale con l’Alleanza. Il messaggio è chiaro: la fermezza è necessaria, ma non bisogna cadere in un’escalation incontrollata. In questo senso, Tajani ha voluto differenziare la posizione italiana da quella di Paesi come Polonia o Repubblica Ceca, più propensi a risposte immediate e muscolari. È un equilibrio difficile: Roma non vuole apparire debole agli occhi degli alleati, ma cerca al tempo stesso di tenere aperto un margine per la diplomazia.
Escalation gestita e rischi di scintilla involontaria sul fianco Est della NATO
Il problema non risiede tanto nella singola violazione dello spazio aereo — che si tratti di un drone non armato, di un velivolo con transponder spento o di uno sconfinamento di pochi minuti — quanto nella serialità di questi episodi e nella “zona grigia” che inevitabilmente producono. Ogni volta che un Paese NATO reagisce in modo sproporzionato o invoca l’articolo 4, si crea un precedente che innalza ulteriormente la soglia di ciò che viene ritenuto accettabile. Così, ciò che in origine poteva essere archiviato come “incidente isolato” finisce per diventare il nuovo standard, erodendo progressivamente le possibilità di de-escalation.
Secondo la logica militare questa dinamica appare lineare, ma le circostanze concrete di tali “incidenti” destano più di un sospetto: la loro ripetitività sembra tutt’altro che casuale. Dopo l’episodio dei tre MiG, il clima politico-mediatico si è caricato di una vera e propria isteria, sfruttando l’accaduto per spingere deliberatamente il dibattito europeo verso una direzione precisa: quella dell’escalation.
In definitiva, qui che emergono due linee opposte. Da un lato, leader come Petr Pavel e diversi ministri baltici sostengono che l’unica deterrenza credibile sia quella fondata sulla prontezza a colpire: abbattere i velivoli intrusi, dimostrare la volontà di reagire immediatamente, anche se ciò comporta l’avvicinarsi a un conflitto aperto. Per questa visione, ogni esitazione equivale a incoraggiare Mosca a ripetere le provocazioni.
Dall’altro lato, voci come quella di Antonio Tajani sottolineano che una reazione sproporzionata rischia di alimentare il ciclo delle provocazioni e di precipitare l’Europa in una guerra che non vuole. Tajani insiste sul fatto che la fermezza deve andare di pari passo con la prudenza: difendere i confini sì, ma senza trasformare ogni episodio in un casus belli. Questa impostazione, meno appariscente ma più pragmatica, riflette la consapevolezza che l’escalation non giova a nessuno, men che meno ai Paesi europei già sotto pressione economica e sociale.
La cornice politica: il discorso di Orbán
Sul piano politico e simbolico, le parole di Viktor Orbán hanno contribuito ad allargare il quadro della discussione. Il premier ungherese ha parlato di un’Unione Europea in “stato di disgregazione”, aggiungendo che il prossimo Quadro Finanziario Pluriennale (2028-2035) potrebbe essere l’ultimo gestito nella forma attuale se non ci saranno riforme profonde. Il suo ragionamento va oltre la retorica abituale contro Bruxelles: intercetta infatti la fatica strategica di diversi Stati membri, divisi tra il sostegno a Kiev, la pressione per aumentare le spese militari e le difficoltà interne legate a debito, inflazione e migrazioni.
Orbán propone un modello alternativo che mette al centro la sovranità nazionale e la difesa delle tradizioni, contrapponendosi apertamente a un’Europa che appare sempre più integrata solo sul piano militare e sempre meno capace di garantire prosperità economica e stabilità sociale. La sua visione non trova consenso unanime, ma rappresenta la voce di una parte crescente di opinioni pubbliche stanche di sacrifici imposti in nome di una strategia percepita come decisa altrove, tra Bruxelles e Washington.
Cosa guardare nelle prossime 72 ore
Gli sviluppi immediati ruotano attorno a tre fronti principali:
1. Riunione NATO sul caso Estonia
Martedì i rappresentanti dell’Alleanza discuteranno la richiesta di Tallinn di invocare l’articolo 4 dopo lo sconfinamento dei MiG-31. Sul tavolo c’è la possibilità di definire regole d’ingaggio comuni per droni e velivoli senza transponder, in modo da uniformare le risposte ed evitare decisioni unilaterali che possano generare incidenti maggiori. È un passaggio delicato, perché fissare regole più dure significherebbe aumentare la probabilità di abbattimenti e quindi di escalation.
2. Rafforzamento dell’operazione Eastern Sentry
La NATO valuterà nuove rotazioni di mezzi e uomini: non solo altri Eurofighter tedeschi e Rafale francesi, ma anche la presenza di unità navali anti-aeree danesi (AAW) e un potenziamento del comando e controllo (C2). Particolare attenzione viene data agli ingaggi anti-drone “low-cost”, ritenuti cruciali per non sprecare missili costosi contro velivoli di scarsa importanza strategica, ma che possono generare incidenti politici.
3. Sanzioni UE contro la Russia
Sul fronte economico, Bruxelles si muove per preparare un nuovo pacchetto di misure restrittive. Secondo le prime anticipazioni riportate dal Corriere della Sera, l’attenzione si concentrerà soprattutto sul settore energetico e sulla cosiddetta “flotta ombra” russa, cioè l’insieme di petroliere che aggira i controlli internazionali. Anche qui, il rischio è duplice: da un lato, l’inasprimento delle sanzioni può indebolire Mosca; dall’altro, può avere effetti collaterali pesanti sui mercati europei, già sotto stress.
Una contraddizione che pesa sull’Europa
Alla luce di queste dinamiche, ciò che colpisce è la leggerezza — o forse l’intenzionalità — con cui alcuni Paesi baltici, per ragioni storiche e per una russofobia che ha radici profonde, continuano a spingere sull’acceleratore di un conflitto diretto con Mosca. È evidente che la loro memoria dell’occupazione sovietica e la loro fragilità geografica alimentino una percezione costante di minaccia, ma tradurre questa condizione in una richiesta perentoria di escalation militare significa trascinare l’intera Europa in una logica di guerra permanente.
In controluce emerge una contraddizione difficilmente ignorabile. Gli stessi governi che oggi chiedono “reazioni immediate” e “deterrenza credibile” contro la Russia si sono presentati nelle ultime settimane come difensori della pace in Medio Oriente, esortando a proteggere i civili palestinesi e a fermare il ciclo di violenza nella Striscia di Gaza. Due pesi e due misure che rivelano un atteggiamento strumentale: invocare la pace quando è lontana dai propri confini e chiedere la guerra quando il rischio riguarda l’intera Europa.
Questa incoerenza mina la credibilità stessa dell’Unione Europea. Non si può essere paladini della pace a sud e falchi della guerra a est senza mostrare una pericolosa ambiguità. La verità è che i piccoli Paesi dell’Est, nel tentativo di difendere la propria sicurezza nazionale, finiscono per condizionare l’agenda di tutta l’Alleanza, imponendo a milioni di europei il peso di scelte che non derivano da una visione comune, ma da paure e ferite locali. Se l’Europa non saprà distinguere tra legittima difesa e politica dell’escalation, rischia di perdere definitivamente la capacità di porsi come soggetto di pace, trasformandosi nell’ennesimo campo di battaglia delle altrui strategie.
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Nota a margine – Reazioni dai social
Le notizie diffuse da Euronews sull’incidente dei MiG russi e l’intervento degli F-35 italiani hanno generato un acceso dibattito nei commenti. La reazione degli utenti mostra una profonda sfiducia verso la narrazione ufficiale e un sentimento diffuso di insofferenza rispetto al rischio di escalation.
Molti sottolineano la contraddizione storica e culturale delle retoriche belliche: “Quando ero piccolo gli americani ci hanno fatto credere con i loro film che i cattivi erano gli indiani invece era il contrario, sono stati gli europei a massacrarli” (commento 1). Altri contestano apertamente l’attendibilità delle fonti, parlando di “balle senza fine” (commento 2) e mettendo in discussione la versione di Tallinn: “Ma ieri non avevate scritto che i MiG erano stati allontanati dagli F-35 italiani? Non sarà che erano in spazio internazionale e non sopra Tallinn?” (commento 5).
C’è chi ironizza sul linguaggio bellico e sulla retorica della minaccia: “Ho trovato la ruota forata, sono stati i russi” (commento 8). Altri evidenziano la mancanza di prove concrete, chiedendo: “Perché non ci fanno vedere le tracce radar?” (commento 12).
Una parte dei commentatori esprime invece un rigetto più profondo verso l’uso politico di queste notizie: “Volete portare il popolo a ‘credere obbedire combattere’, ma stavolta cascate malissimo. Un conto è l’Europa come mercato unico, tutt’altra cosa è trovare italiani che vadano a morire per difendere i confini dell’Estonia” (commento 7).
Non mancano riflessioni di carattere più generale, che mettono in luce la ripetitività della storia e il rischio di ricadere negli stessi errori: “Non capisco la mancanza di ragionevolezza e il desiderio di fare guerre. Nessuno vince mai in guerra. Il tempo ripropone i soliti errori” (commento 10).
In sintesi, i social registrano un clima diverso rispetto a quello veicolato dai media mainstream: meno allineato, più scettico, spesso sarcastico, e soprattutto segnato dalla convinzione che l’Europa rischi di entrare in una guerra non per scelta dei popoli, ma per dinamiche imposte dall’alto.
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