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L’online come presenza invisibile
Adolescence è una serie TV andata in onda nel marzo del 2025. Di recente l’interprete di Jamie Miller, Owen Wilson, giovanissimo tra l’altro (15 anni), ha vinto l'Emmy Award come miglior attore non protagonista. Adolescence apre una serie di indubbi scenari di discussione. Soprattutto tocca un nervo scoperto: il rapporto tra adolescenti e social media. Il social media è visto – spesso – più che come strumento di espressione e di accesso alle informazioni, come un terreno di vulnerabilità, manipolazione e identità distorta. La serie colpisce perché mostra quanto rapidamente un ragazzo possa essere risucchiato da dinamiche più grandi di lui.
Questo riflette l’ormai onnipresente dibattito sociale sulla necessità di regolamentazioni, sempre più stringenti, sull’online. Ma in questo senso Adolescence è molto più avanti. Nella serie TV l’“online” è una presenza aleggiante, mai mostrata direttamente. Se ne parla, ma sempre in maniera piuttosto vaga. L’online è genericamente “Instagram”, e alcune foto che non vengono mai realmente mostrate. Il digitale così diventa un’entità fantasma, che agisce e non si vede, un’eco che condiziona i comportamenti ma senza mai mostrarsi. Le foto, mai in primo piano, lo dimostrano: l’online è il mostro dietro la porta chiusa, la minaccia senza volto. L’online in realtà non si vede, c’è.
Perché l’online è senza volto?
L’intera serie si svolge in spazi di contenzione: carcere, sale interrogatori, corridoi scolastici, stanze chiuse. La macchina da presa si muove in un piano sequenza incessante, senza tregua. Anche questo sottolinea il senso di oppressione. In quei pochi minuti nei quali si esce all’aria aperta, dopo aver vissuto un’intera puntata nella scuola, anche lo spettatore, insieme agli investigatori, è quasi costretto a tirare un sospiro di sollievo.
Allora il controllo si ribalta, non è l’online a dover essere regolato per contenere Jamie, ma è Jamie che deve essere contenuto nel reale, quasi per proteggerlo da un’alterità digitale che nessuno riesce più a vedere.
L’incomunicabilità generazionale
Perché il punto fondamentale è quello. Basta vedere l’investigatore che non riesce a decifrare il messaggio dei ragazzi su Instagram, messaggio che riuscirà a capire solo dopo, quando il figlio, un ragazzo come gli altri quasi coetaneo di Jamie, gli darà la chiave di decodifica. È l’incomunicabilità tra generazioni che si mostra in tutta la sua potenza. Una generazione che ha perso i contatti con la generazione successiva, i propri figli, ma nonostante ciò insiste nel voler regolamentare l’online, il mostro dietro la porta chiusa.
Adolescence non è un crime-drama ma una riflessione profondissima sul fallimento della comunicazione e della trasmissione simbolica tra generazioni. La comunicazione è rotta, i figli parlano una lingua che i genitori non comprendono e non riescono a decodificare. Il codice per tradurre i segni è perduto. Ed è da questo che nasce il bisogno spasmodico di regolamentare, di contenere, di controllare. Ma non puoi proteggere ciò che non ascolti. Regolamentare senza comprensione non è tutela, è repressione. Ed è anche, in fondo, una forma di autoassoluzione collettiva: non siamo noi ad aver fallito, è l’online che li ha corrotti.
Adolescence è il lamento di una generazione che ha perso i contatti con la generazione successiva, ma non riesce ad ammettere di averli smarriti ben prima dell’avvento dei social. È il meccanismo della rimozione collettiva, solo trasposto nel digitale. È una strategia difensiva, quasi inconscia, per non affrontare il vero trauma: l’assenza educativa e affettiva. L’online diventa il parafulmine emotivo e morale, il capro espiatorio per assolverci dai peccati del mondo. Così nasce il mostro.
Non perché esiste, ma perché serve. L’online non è altrove, è ovunque, ma non lo sappiamo più leggere. E quindi lo chiudiamo fuori campo.
Adolescence non scade nella colpevolizzazione del ragazzo, piuttosto mostra come è crescere in un ambiente tossico, un ambiente nel quale gli adulti non hanno più il codice per comprendere la nuova generazione. Non si tratta tanto di “cattivi ragazzi” quanto di un ecosistema culturale che amplifica fragilità e impulsi.
Il perfetto capro espiatorio
È più facile dare la colpa a Instagram che affrontare il disagio di un ragazzo, l’assenza educativa, la pressione sociale, la fragilità emotiva. Si caricano sull’online tutte le colpe. Adolescence non giudica né assolve, ma ti obbliga a farti domande. Perché quello che manca, nel suo racconto, è proprio il punto di vista del “mostro”. L’online non si vede, la sua presenza aleggia nella stanza, terribilmente reale, ma nessuno lo guarda realmente, nessuno lo vede, soprattutto lo spettatore. Perché nessuno lo capisce realmente.
Se l’online è un’assenza che pesa, la realtà è invece una presenza muta e distante. È lì, nella stanza con Jamie: il padre, l’avvocato, l’investigatore. Tutti presenti a turno insieme a lui, ma in realtà nessuno realmente ascolta. L’investigatore che non capisce il messaggio, il padre che si gira dall’altro lato per non vedere. È un’intera generazione che abdica il proprio ruolo e cerca una scappatoia. Perché altrimenti dovrebbe ammettere le proprie colpe.
La serie intercetta un meccanismo antico, che il sociologo Stanley Cohen chiamava panico morale (Folk Devils and Moral Panics): la società, di fronte a un cambiamento, costruisce un “mostro” da additare come responsabile. I media lo amplificano, la politica lo punisce, i cittadini si rassicurano.
La tecnologia è da sempre un capro espiatorio perfetto: la TV negli anni ’60, i videogiochi negli anni ’90, i social nei 2000, oggi l’intelligenza artificiale. Ogni volta lo schema si ripete: evento tragico → colpa al mezzo → legge repressiva → sollievo temporaneo → oblio delle vere cause. Adolescence mostra questo ciclo, ma lo sposta sul piano simbolico: il mostro non è nell’algoritmo, ma nell’incapacità adulta di vedere e ascoltare.
L’online diventa il colpevole comodo perché è altro, è esterno, è spersonalizzabile. Nessuno vuole mettere in discussione la TV, perché è ancora percepita come “la nostra”, appartenente al mondo adulto. Nessuno vuole mettere in discussione la famiglia, perché significherebbe ammettere il fallimento della struttura portante della società. Allora si punta il dito su ciò che non si capisce, su ciò che non si controlla. L’online. I social. L’algoritmo. Un nemico perfetto: muto, astratto, polimorfo.
Ma la colpa non è dove guardiamo, è dove non vogliamo guardare. La colpa non è dietro la porta chiusa, ma lì in quella stanza di contenzione, di costrizione. In quella stanza, con Jamie, tutti sono fisicamente presenti, ma nessuno è davvero lì per lui. Nessuno ha il coraggio di ascoltarlo senza filtri. È lo specchio di una società che simula la vicinanza, ma non regge il confronto con il dolore vero, con la responsabilità. E la cosa tragica è che in questa narrazione adulto-centrica - insegnanti, genitori, opinionisti - i ragazzi non parlano mai. Non hanno voce. O meglio: ce l’hanno, ma è continuamente tradotta, interpretata, spiegata da altri. È un silenzio che urla, come quello di Jamie.
E l’online, allora, diventa una coperta ideologica, sotto la quale si nasconde il disagio sistemico: diseguaglianza educativa, carenze affettive, famiglie frammentate, adulti esausti o assenti, scuola impreparata. E quando questi fallimenti si manifestano, si invoca la regolamentazione dell’online. Ma è solo un modo per regolare l’ansia adulta, non per salvare i ragazzi.
Adolescence riesce a raccontare tutto questo senza bisogno di mostrare un solo reel, una sola story, un solo profilo social. Perché non serve. Il punto non è il contenuto digitale, ma l’incapacità adulta di ascoltare.
Oltre la colpa: ascoltare, non solo regolare
Il paradosso è che molte soluzioni ai “problemi” dei ragazzi virano costantemente su regolamentazioni costrittive (es. Chat Control 2), come le stanze di Jamie. Ma cercare di risolvere il problema con una regolamentazione severa finirebbe per amplificare l’alienazione dei ragazzi, rinchiudendoli in spazi ancora più angusti e spingendoli a fare fronte al loro disagio in modo ancora più isolato. La reazione sarebbe quella di un rifiuto ancora maggiore, un’esclusione che farebbe sentire i ragazzi sempre più impotenti e incapaci di trovare una via di fuga sana.
Vietare smartphone e social media ai più giovani è una misura ingenua e controproducente
Le “stanze chiuse” della serie diventano metafora delle normative che rinchiudono invece di comprendere. Più regole, più contenimento, più isolamento: eppure il disagio cresce.
L’online, con tutti i suoi limiti e pericoli, offre anche uno spazio di espressione e di comprensione, che potrebbe essere difficile trovare in altri luoghi. In forum o gruppi, molti giovani riescono a confrontarsi con chi ha vissuto o sta vivendo le stesse frustrazioni, e lì c’è un’opportunità: parlare, riflettere, riconoscere il proprio disagio senza sentirsi subito etichettati come “deboli” o “falliti”. Questi spazi, seppur a volte tossici, possono anche essere uno strumento di auto-aiuto e consapevolezza che difficilmente troverebbero all’interno delle strutture tradizionali.
Il vero cambiamento, però, passa dall’educazione digitale. È fondamentale iniziare fin dalla scuola a parlare di questi temi in modo serio, critico e informato. Non solo come protezione, ma come un vero e proprio apprendimento di competenze che riguardano la comunicazione, l’etica online, il riconoscimento di manipolazioni o narrazioni dannose. L’idea di regolamentare, senza offrire una formazione digitale adeguata, sarebbe come insegnare a nuotare ai bambini senza metterli mai in acqua: rischieremmo di imporre una barriera senza mai dare loro gli strumenti per muoversi davvero nel mondo, sia quello reale che digitale.
È più semplice incolpare l’“algoritmo malvagio” o i “social che distruggono la mente dei giovani”, che affrontare le vere cause: un sistema educativo in crisi, un’incapacità collettiva di affrontare il disagio generazionale, e una cultura che ancora non riesce a comprendere davvero il ruolo che la tecnologia gioca nella vita quotidiana.
In questo clima, è difficile pensare a un’educazione digitale che non venga percepita come una giustificazione del “male” tecnologico, ma come una risorsa fondamentale. Quando la politica e i media alzano il volume sul pericolo, diventa difficile fare una narrazione alternativa che sottolinei il valore positivo di un uso consapevole della tecnologia.
Perché la vera domanda che Adolescence ci lascia è: quanto siamo disposti, come adulti, a sopportare la voce dei ragazzi senza ridurla al silenzio? L’online non è solo minaccia, è anche spazio di espressione, di confronto tra pari, di riconoscimento. Demonizzarlo significa togliere una delle poche vie di fuga comunicative. La risposta non è il controllo cieco, ma un’educazione digitale diffusa: dare strumenti critici, non sbarre.