A prescindere che l’incursione di droni nello spazio aereo polacco del 10 settembre scorso sia stata o meno un’esplicita e voluta provocazione russa,
A prescindere che l’incursione di droni nello spazio aereo polacco del 10 settembre scorso sia stata o meno un’esplicita e voluta provocazione russa, un dato è certo: ha mostrato le fragilità securitarie dell’Europa e mandato in panico molti decisori del Vecchio Continente. Mostrando come ad oggi l’Europa si trovi tra un incudine e un martello, o ancor meglio stretta in una tenaglia: da un lato, la morsa del potenziale disimpegno americano dalla sicurezza del continente, dall’altro la pressione russa a Est. I droni sono la puntura di spillo che mostrano la rarefazione della difesa europea, il dito che indica la luna di una contesa strategica in cui l’Europa sembra aver valore d’uso e di scambio barattabili per il suo alleato d’oltre Atlantico. Per l’amministrazione di Donald Trump l’Europa deve marcare a Est Mosca così da coprire il suo disimpegno, alimentare la propria industria degli armamenti con i piani concordati in ambito comunitario e Nato e dunque favorire la svolta di Washington verso il contenimento della Cina. Parimenti, però gli Usa non hanno particolare interesse a un solido rafforzamento delle capacità autonome dell’Europa proprio perché la dottrina negoziale di The Donald vede il Vecchio Continente parte del menù dell’ancora sperato negoziato bilaterale con i russi per un ordine securitario globale. Una “nuova Yalta” di cui si è avuto l’anteprima il 15 agosto a Anchorage e in cui rivive l’illusione di un eterno 1945, quando Washington e Mosca avevano forza e possibilità di spartirsi il mondo. Parimenti, anche la Russia vive la sindrome del 1945 e dunque l’obiettivo politico-ideologico di trovare un modus vivendi con gli Usa, delimitando le sfere d’influenza in Europa. In tal senso, la mossa “contrattuale” di Mosca è quella di provare a scaricare sull’Europa la responsabilità per il prosieguo della guerra in Ucraina, dividere Vecchio Continente e Usa, minacciare l’uso dell’arma nucleare sull’Europa stessa in caso di crisi. “Siamo di fronte a élite europee che hanno fallito su tutti i fronti e cercano di coprire la loro disfatta dietro l’immagine di una Russia descritta come pericolosa e pronta ad aggredire”, ha dichiarato a Orietta Moscatelli di Limes il politologo Sergej Karaganov, stretto consigliere di Vladimir Putin e capo del Consiglio per la politica estera e di difesa della Federazione Russa. Karaganov paventa l’uso dell’atomica sul Vecchio Continente, indica nell’Europa un nemico strategico e così facendo rilancia la speranza di una “finlandesizzazione” dei vicini, da ridurre come era Helsinki ai tempi della Guerra Fredda a attori troppo impauriti del Metus Russicus per azzardare ogni velleità di autonoma azione strategica. In quest’ottica si salda la tenaglia russo-americana che impone delle decisioni strategiche critiche e delle scelte di prospettiva chiare. Come far convivere un rafforzamento della deterrenza militare e politica con un maggior realismo diplomatico? Come consolidare le determinanti di fondo della sicurezza militare con un clima politico che eviti isterismi? Soprattutto, come uscire dall’angolo tra un alleato che sempre più si distanzia dal suo ruolo di patrono e garante e un avversario strategico che con quest’ultimo si vuole intendere? Può essere un riarmo senza strategia e che guarda al possibile finanziamento dell’industria Usa come a una scelta? Le classi dirigenti comunitarie non sanno dare una risposta reale. E stanno consegnando a una nuova spartizione un’Europa oggetto, e non soggetto, delle dinamiche globali. Come se il suicidio della potenza globale del Vecchio Continente del 1939-1945 continuasse silenziosamente anche oggi, incapace di essere invertito.