Un’idea di partenza promettente
Il film, prequel della fortunata serie Rai Mare fuori, si presentava come un’occasione per approfondire la genesi di un personaggio complesso come Rosa Ricci, interpretata da Maria Esposito. L’intento era quello di esplorare la trasformazione di una giovane donna da figlia viziata a membro attivo di una famiglia camorristica, offrendo uno sguardo più intimo e psicologico rispetto alla serie televisiva. Questa premessa avrebbe potuto rappresentare un esperimento interessante nel panorama del cinema italiano contemporaneo, capace di unire dramma sociale e introspezione personale. Tuttavia, la scelta stilistica adottata ha finito per tradire questa ambizione. Per evitare un’estetica troppo televisiva, la produzione ha deciso di adottare un linguaggio visivo e narrativo fortemente ispirato a Gomorra, la serie simbolo della criminalità organizzata italiana. Questa decisione, lungi dal valorizzare il racconto, ha creato una sorta di sudditanza artistica verso un modello già consolidato, riducendo il film a una riproposizione estetica e narrativa poco originale.
L’estetica di Gomorra come limite
L’adozione delle soluzioni visive di Gomorra – con il suo ritmo serrato, le inquadrature cupe e l’atmosfera di violenza latente – avrebbe dovuto conferire al film un tono più maturo e cinematografico. In realtà, questa scelta ha prodotto un effetto di omologazione che ha appiattito la narrazione, trasformandola in un fotoromanzo per un pubblico molto specifico, quello delle “figlie di boss” della camorra, come è stato efficacemente sintetizzato da alcuni critici. Il problema principale risiede nel fatto che il film non riesce a distaccarsi dal modello di riferimento, né a sviluppare una propria identità. La protagonista, pur essendo al centro della storia, appare spesso come un’icona stereotipata, priva di quella complessità che avrebbe potuto renderla un personaggio realmente sfaccettato. L’ambientazione lussuosa e i dettagli estetici, invece di arricchire la narrazione, sembrano enfatizzare un immaginario di potere e violenza che rischia di banalizzare la realtà criminale, trasformandola in un prodotto di consumo estetico.
La narrazione tra cliché e mancanze
Dal punto di vista narrativo, il film si concentra sulla progressiva “iniziazione” di Rosa al mondo della camorra, ma lo fa attraverso una serie di situazioni e dialoghi che risultano prevedibili e poco incisivi. La trasformazione della protagonista, che avrebbe dovuto essere il cuore emotivo del racconto, appare forzata e poco credibile, quasi come se fosse un mero espediente per giustificare la sua adesione al clan familiare. Questa superficialità narrativa è stata evidenziata da critici come quelli di Il Fatto Quotidiano e La Repubblica, che hanno sottolineato come il film manchi di quella profondità psicologica e sociale che avrebbe potuto elevarlo al di sopra del semplice racconto criminale. L’assenza di un vero sguardo critico sulla camorra e sulle dinamiche familiari interne al clan contribuisce a rendere il prodotto finale poco incisivo e, in alcuni casi, persino compiacente.
Un’occasione mancata per il cinema italiano
In un panorama cinematografico italiano che negli ultimi anni ha mostrato una crescente attenzione verso storie di criminalità organizzata con approcci innovativi e riflessivi, questo film rappresenta una battuta d’arresto. La scelta di affidarsi a un’estetica già vista e di non approfondire la complessità del personaggio principale ha privato il pubblico di un’opera capace di offrire nuove chiavi di lettura. L’esperimento avrebbe potuto essere interessante se fosse stato accompagnato da una scrittura più coraggiosa e da una regia capace di distaccarsi dai modelli consolidati. Invece, il risultato è un prodotto che rischia di perpetuare stereotipi e di ridurre la narrazione a un semplice fotoromanzo, destinato a un pubblico di nicchia e incapace di dialogare con una platea più ampia e critica.
