Tra Berlino e l’Espressionismo, David Bowie trovò nella pittura un rifugio segreto. L’altra vita del Duca Bianco, oltre la musica.

David Bowie: tra “Heroes” e “Roquairol”, Berlino come tela e rifugio
- Orazio Sturniolo
- 1 Ottobre 2025
Quando David Bowie e Iggy Pop arrivarono a Berlino, alla fine degli anni Settanta, la città li accolse con il suo volto diviso: da un lato l’Occidente, con i club fumosi di Kreuzberg, le luci della Kurfürstendamm e le notti di cabaret; dall’altro l’Oriente, grigio e militarizzato, chiuso dietro il Muro. Un’isola fragile dentro l’Europa della Guerra Fredda, un luogo che respirava capitalismo e decadenza, e che al tempo stesso soffocava nella sua stessa alienazione. In quell’atmosfera di precarietà, di contrasti feroci, si riconoscevano e si perdevano artisti, tossici, studenti e visionari.
Berlino era già stata così negli anni Venti della Repubblica di Weimar: un laboratorio di libertà e sperimentazione che aveva prodotto ritrovi bohémien scandalosi, teatri d’avanguardia, l’Espressionismo pittorico e cinematografico, le feste di Anita Berber e i quadri di Kirchner. Poi erano arrivati il nazismo, la guerra e infine il Muro, ma la città non aveva mai smesso di trasformarsi. Negli anni Settanta, pur segnata e divisa, continuava a divorare notti, amori e inquietudini: splendida nel suo vivere come se fosse sempre al limite.
Con l’arrivo di Bowie, iniziò per entrambi – artista e città – un nuovo periodo di fioritura culturale che riaccendeva quella stessa fiamma, trasformando Berlino in una tela sonora e visiva.
Da quella stagione radicale, elegante, ribelle e cosmopolita nacquero cinque dischi: per Bowie la celebre trilogia berlinese, Low e Heroes (1977), Lodger (1979); per Iggy Pop, The Idiot e Lust for Life (1977). Bowie, stremato dalla spirale di cocaina e fama che lo aveva divorato a Los Angeles, cercava una fuga, un taglio netto col passato, con i personaggi che lo avevano reso un’icona ma che ormai gli apparivano “vuoti”. Anche Iggy non stava meglio. La Germania Ovest apparve come un rifugio, e Berlino come il punto esatto in cui ricominciare.
Accanto a Bowie c’era Brian Eno, mente visionaria e complice silenzioso. Non un produttore in senso stretto, quanto un catalizzatore di possibilità: con le sue Oblique Strategies, carte rivelatrici di aforismi e rovesciamenti di prospettiva, spingeva Bowie a tentare strade che da solo forse non avrebbe imboccato. Le atmosfere rarefatte di Low, i paesaggi sonori di Warszawa e Neuköln, l’ipnosi elettronica di Heroes devono molto a quella alchimia: Bowie cercava una nuova pelle, Eno gli offriva un laboratorio di suoni che aveva assorbito dal Krautrock tedesco, dai Kraftwerk ai Cluster. Insieme trasformarono la Berlino divisa in un cantiere di futuro.
Ma al di là dei suoni e delle strategie, c’era l’uomo. Bowie arrivava logorato da Los Angeles. Anni dopo lo avrebbe detto chiaramente: «La vita a Los Angeles mi aveva lasciato una sensazione di angoscia. Avevo sfiorato troppe volte il disastro indotto dalla droga, e dovevo agire in modo positivo. Berlino mi era sempre sembrata un santuario: una città in cui potevo muovermi nell’anonimato, dove la vita era economica e la gente non si curava certo di un cantante rock inglese.
Bowie scelse di vivere a Schöneberg, il quartiere che aveva visto nascere Marlene Dietrich e Blixa Bargeld. Dedicò persino un brano, Neuköln, a un altra zona berlinese. Berlino non era Parigi con il suo romanticismo né Londra con la sua eccentricità: era una giungla di cemento popolata da eccentrici e visionari, erede degli espressionisti e segnata da una fragilità consapevole della propria caducità.
Quella precarietà attraversava la città e la musica di Bowie. Heroes non è solo un album, ma il ritratto sonoro di una città e dei suoi amanti che si baciano davanti al Muro. Low e Lodger contengono lo stesso senso di alienazione e attitudine moderna che si respirava in Alexanderplatz o a Bahnhof Zoo, fra tram che si incrociavano e palazzi opachi che sembravano usciti da un quadro di Kirchner.
La fascinazione di Bowie per l’Espressionismo tedesco non fu un colpo di fulmine improvviso. Già da ragazzo, quando ancora si chiamava David Robert Jones e frequentava la Beckenham Technical School di Bromley, passava ore a studiare arte e design sotto la guida di Owen Frampton – padre di Peter Frampton – che anni dopo avrebbe ricordato come “un insegnante eccellente, un’ispirazione”.
Da allora in poi, tutto fu un inseguire linee spezzate e figure tormentate: le xilografie di Erich Heckel, i volti acidi di Kirchner, gli scenari deformati di film come Il Gabinetto del dottor Caligari di Wiene o il Nosferatu di Murnau. Immagini che sembravano già musica, fatte di spigoli e ombre, di emozioni pure senza bisogno di trama. Non sorprende che quelle visioni finissero dritte nelle sue pose, negli scatti di Sukita per Heroes, nei rossi violenti dei suoi quadri berlinesi e nei paesaggi sonori di Low.
A Berlino frequentava il Die Brücke Museum, aperto solo pochi anni prima. «Sin da adolescente ero ossessionato dall’angoscia degli espressionisti, pittori e cineasti, e Berlino era la loro casa spirituale. Era un’arte che non rappresentava gli eventi, ma gli stati d’animo. È lì che sentivo andare il mio lavoro, confessò a Uncut nel 1999.
Fra tutti, il quadro che lo colpì di più fu Roquairol (1917) di Erich Heckel, ritratto dell’artista Ernst Ludwig Kirchner in pieno collasso nervoso. Non si limitò ad ammirarlo: lo reinterpretò. Prima convincendo Iggy Pop a posare nella stessa posa per la copertina di The Idiot. Poi trasformando l’eco del quadro nello scatto di Masayoshi Sukita che divenne la copertina di Heroes. Quelle mani rigide, quello sguardo febbrile: una fotografia che era già pittura, un’icona senza tempo.
Parallelamente, Bowie dipingeva. Le sue tele di quegli anni – Child in Berlin, Berlin Landscape with JO – hanno la stessa urgenza dei suoi dischi. Colori forti, figure deformate, autoritratti disturbati e paesaggi urbani intrisi di inquietudine. Espressionismo filtrato attraverso un’anima in cerca di salvezza.
Non smise mai di dipingere. Negli anni Novanta realizzò una serie di ritratti di Yukio Mishima, lo scrittore giapponese che amava per la sua estetica tragica e per il rapporto ossessivo con bellezza e morte. Portò avanti la serie DHead, decine di volti dipinti a olio e acrilico su tela, spesso dedicati agli amici e collaboratori come Mike Garson: ritratti spigolosi, dai tratti esagerati, che sembravano caricature espressioniste di una galleria di fantasmi personali.
Dai viaggi con Iman in Sudafrica trasse invece ispirazione per una serie di opere legate al mito del “white ancestor” delle tribù locali: volti e figure totemiche, immerse in colori forti, che univano suggestioni africane e neo-espressionismo europeo. Ogni spostamento, ogni incontro, diventava per lui materia da trasfigurare in pittura.
Era un lavoro parallelo, portato avanti nei ritagli di tempo, lontano dalle luci dei tour e delle sale di registrazione, ma con la stessa urgenza. Un laboratorio privato, che funzionava come diario visivo della sua vita, dove emergevano i suoi interessi letterari, i viaggi, le persone a cui era legato.
Espose poco – a Londra e Basilea a metà anni Novanta – e fece parlare più i suoi dischi che le sue tele. Ma la sua pittura era parte dello stesso flusso creativo. «Se voglio dipingere o fare installazioni, lo faccio e basta, disse al Telegraph nel 1996.
La musica e la pittura erano due dialetti della stessa lingua. Nei quadri si sente la stessa energia che attraversa Sound and Vision o Sense of Doubt. Guardando i suoi autoritratti si riconosce la stessa inquietudine che vibra in Blackstar. Bowie trasformava la città, l’arte, il dolore in nuove forme.
La Berlino di quegli anni lo accolse, gli offrì anonimato, libertà, un terreno fertile di sperimentazioni. In cambio Bowie le restituì tre album che definì «il mio DNA, scolpiti nel suono e nell’immaginario collettivo come pochi altri. In quelle strade imparò che non servivano più maschere, che poteva presentarsi al mondo semplicemente come David Bowie.
Eppure la sua stagione berlinese non fu solo un capitolo di transizione: fu un atto di sopravvivenza e un laboratorio creativo che avrebbe segnato tutto ciò che venne dopo. Dai synth minimali di Low alle distorsioni urbane di Heroes, dalle tele intrise di rosso ai ritratti della serie DHead, ogni cosa nata allora portava l’impronta della città divisa e del suo sguardo espressionista.
Molti anni dopo la stagione berlinese, quando tutti lo davano ormai ritirato, David Bowie tornò in punta di piedi con un singolo pubblicato a sorpresa l’8 gennaio 2013, il giorno del suo sessantaseiesimo compleanno. Where Are We Now?, una ballata fragile, quasi un sussurro, che riportava a galla Berlino: Potsdamer Platz, il KaDeWe, il Bösebrücke aperto la notte del 9 novembre 1989. Non c’era più alcun personaggio, nessuna maschera: era Bowie stesso a cantare, con una voce segnata dal tempo, la città che lo aveva accolto e cambiato.
Il video diretto da Tony Oursler amplifica questo senso di memoria: Bowie e l’artista Jacqueline Humphries — pittrice astratta e moglie di Oursler, scelta perché ricordava Corinne “Coco” Schwab, la sua storica assistente negli anni berlinesi — appaiono come due pupazzi con i volti proiettati, seduti su una valigia. Sullo sfondo scorrevano immagini in bianco e nero della Berlino divisa: la Colonna della Vittoria, il Reichstag, Alexanderplatz, i cavalcavia di Potsdamer Platz. In studio, invece, un caos di simboli: manichini, bottiglie, un diamante, un orecchio blu, un quadro vuoto, reliquie di una memoria personale che si confondeva con la città.
Perfino i dettagli della vita privata tornavano a galla: la maglietta con la scritta Song of Norway, riferimento al film in cui aveva recitato Hermione Farthingale, la fidanzata che lo lasciò nel 1969. Come se Bowie avesse voluto intrecciare le sue ferite più intime con i ricordi berlinesi.
Where Are We Now? fu accolto come un ritorno commovente e inatteso. Ma era qualcosa di più: la prova che Berlino non era stata solo una parentesi creativa, bensì la bussola segreta che gli aveva orientato la vita e l’arte fino alla fine.
Dieci anni dopo la sua scomparsa, la parentesi berlinese resta un punto di svolta non solo nella sua carriera, ma nella storia della musica contemporanea. Berlino gli diede rifugio e anonimato, lui le restituì opere che ancora oggi raccontano il coraggio di reinventarsi. È per questo che Heroes non è soltanto un disco: è la prova che l’arte può tenerti in vita, che un muro può diventare scenario di libertà, che persino il caos può trasformarsi in bellezza immortale.