Tutto, purché si nasconda la realtà della liberazione di Gaza dai terroristi. Le menzogne robuste quanto comode non impediscono che la storia registri chi ha reso possibile la difesa e chi ha lucrato sulla sua negazione

L'editoriale dell'elefantino
“La grande parata” di chi nega la vittoria di Israele su Hamas piegandosi al mainstream
Tutto, purché si nasconda la realtà della liberazione di Gaza dai terroristi. Le menzogne robuste quanto comode non impediscono che la storia registri chi ha reso possibile la difesa e chi ha lucrato sulla sua negazione
Fatto, obiettivo centrato. Israele recupera gli ostaggi, vivi e morti, imponendo la capitolazione militare e politica alla banda di Hamas. Li accerchia e li separa dalla popolazione civile dopo due anni di tragiche sofferenze per tutti, costruisce al momento giusto sia con la forza sia con il negoziato, con il negoziato dipendente dall’uso della forza, in uno slancio di combattività e di disperazione che la memoria potrà conservare, le condizioni di una pacificazione che sradica la pretesa nichilista del nemico, lo isola dopo avergli inferto colpi micidiali, lo costringe a cedere. La conclusione dovrebbe essere semplice, lineare, univoca. A due anni da un eccidio di ebrei in quanto ebrei, il pogrom terroristico e “popolare” del 7 ottobre, realizzato sul modello della Shoah in Israele e festeggiato a Gaza, regolato il fronte del nord (Hezbollah), assestato un colpo decisivo all’Iran prenucleare, recuperata la Siria dallo stragista Assad che aveva distrutto il suo popolo nell’indifferenza del mondo, in difesa sul fronte missilistico degli houthi yemeniti, Israele ha vinto la sua più grande battaglia esistenziale dall’anno della sua fondazione, il 1948. Ma questo ovvio riconoscimento non ci sarà.
Chi lucra ideologicamente, non importa se con ingenuità o con malizia, sugli ondeggiamenti dell’opinione corrente, chi rifiuta il buon senso e premia il malefico senso comune, chi specula sulla pappa del cuore umanitario e sul narcisismo etico, chi non ha capito che uno dei modi per subire e dunque affermare l’ingiustizia è l’uso strumentale di un concetto ambiguo di bene, stabilendo per esempio l’impresentabilità etica di una guerra di difesa dal terrore, deve ora inventare quella che Jean-François Revel chiamò in un suo saggio “la grande parata”. Revel scriveva del fallimento del sistema socialista e comunista, un dato di fatto che la sinistra marxista aveva disinnescato dopo la caduta del Muro di Berlino resuscitando l’utopia afflosciata in nome della critica al liberalismo capitalistico.
Qui gli argomenti saranno altri. L’uomo nero, Netanyahu, ha dovuto infine cedere alla pressione dell’opinione e degli stati, che avevano isolato il suo governo e riconosciuto la Palestina incondizionatamente. Trump lo ha mollato per abbracciare una soluzione simile all’impalatabile formula dei due stati, altro che riviera di Gaza. Non ha resistito alla pressione accorata delle famiglie degli ostaggi. Ha dovuto inchinarsi agli interessi della Casa Bianca, forte del suo rapporto privilegiato con gli arabi messo in discussione dall’errore del bombardamento del Qatar. Ha subìto gli attacchi flottiglieri di Haaretz e del centrosinistra nemico dell’alleanza tra Likud ed estreme destre messianiche cosiddette. Si prepara a fare le valigie con le prossime elezioni, quali che siano le combinazioni che è capace di inventare dopo quella che spaccia per una sua vittoria. Subisce la rivolta della società israeliana messa in croce e discriminata dalla accademia all’economia ai festival musicali allo sport nel progressivo isolamento internazionale di Israele.
La parata è ben impostata. Non è Hamas che è circondata da Israele, dal suo esercito che ha perso mille soldati, che ha retto su sette fronti, che è andato dove tutti gli dicevano di non andare, un esercito coraggioso che è composto in gran parte di società civile, i riservisti, chiamata alla difesa patriottica in una sequela di decisioni drammatiche, difficili, in cui la democrazia israeliana ha funzionato a pieno ritmo, fino al paradosso di decisioni realizzate da uno stato maggiore contrario. E’ Netanyahu che è circondato dalle immagini di devastazione e di morte a Gaza, dalle proteste di buona coscienza nel suo paese e nel mondo, dalle grida contro il genocidio, dalla rivolta delle ambasciate. Non è Hamas sotto pressione dopo due anni di guerra in cui si è protetta con i civili, è il governo israeliano che è sotto la pressione di un frustrato e ormai inflessibile Trump. Al quale, pur di parare il colpo anche con quel tanto di buffonesco che può rivelarsi necessario, i leader dell’ideologia maligna del genocidio sono disposti a dare un Nobel e anche un Oscar, purché si affermi l’idea che qualcuno ha piegato il braccio a un riluttante guerrafondaio e criminale condannato dalla Corte penale internazionale e in attesa di arresto. Purché si nasconda la realtà della liberazione di Gaza da Hamas, free Gaza from Hamas, invocazione iscritta in un cartello di un giovane milanese affacciato dalla finestra su una delle tante manifestazioni guidate e inscenate da veri cialtroni, purché si nasconda che la terra israeliana dal fiume al mare, un incubo sterminazionista che continuerà a essere coltivato, è stata difesa con valore visto che, come diceva Golda Meir, “la forza degli ebrei è che non hanno un altro posto in cui andare”.
Quando si dice una menzogna e si pretende di imporla per il bene della causa, tutto è possibile. Anche parare un tiro imparabile con una teoria lunga e tortuosa di sciocchezze mainstream.