
“Possiamo uscire da questo inferno, un pollice alla volta” diceva Al Pacino in Any Given Sunday. In Him, il film di Justin Tipping e prodotto da Jordan Peel che vi raccontiamo in questa recensione, si parla sempre di football americano — ma è verso l’inferno che si scene, un pollice alla volta. Un horror tonale che diventa una metafora splendidamente diretta, seppur a volte un po’ troppo concentrata sulle immagini per raccontarci una storia. Ma nel football, non conta la perfezione tecnica — conta arrivare in touchdown. Proveremo a spiegarvi, senza spoiler, perché Him secondo noi lo manca di qualche millimetro. Ma anche a convincervi che, nonostante tutto, a volte vale la pena anche guardare una partita che sembra persa.
La nostra recensione di Him
Nel poster l’unico nome che si nota è quello del produttore Jordan Peele, nel trailer sentiamo persino un personaggio suggerire al protagonista di scappare. Quindi, siamo entrati al cinema convinti che Him fosse un po’ il “Get Out del football”. Un paragone scomodo — l’opera prima di Peele è secondo noi il miglior horror degli ultimi dieci anni, nonché uno dei migliori film in assoluto. Ma anche un paragone impreciso.
Vogliamo dirvelo da subito: non vi aspettate una copia di Get Out o degli altri film di Jordan Peele. Justin Tipping (Kicks) ha un’idea tutta sua di cinema, che punta più sulla forza delle immagini che sui dialoghi intelligenti e divertenti di Peele. Entrambi pensano, a ragione, che l’horror possa prestarsi a diventare una potente metafora sociale. Ma il bilanciamento fra simbologia e trama lo gestiscono in modo molto differente.
Diventare il GOAT
Cam (Tyriq Withers) segue il football fin da quando è piccolo. Quando osserva il suo idolo Isaiah White (Marlon Wayans) infortunarsi ma far vincere i suoi San Antonio Saviors, suo padre gli dice che è quello che fanno i veri uomini: si sacrificano per ottenere quello che vogliono, per diventare i GOAT. Che nel linguaggio sportivo americano significa “Greatest of All Time”, il migliore di sempre — ma anche “capra”, l’animale da sacrificio per eccellenze.
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Passano gli anni, suo padre muore, ma Cam sta per diventare una vera stella dello sport che ama. Subisce però una ferita alla testa quando qualcuno, vestito da capra, lo attacca. Dovrebbe provare a rimettersi nei tempi giusti, ma il suo agente (Tim Heidecker) lo convince ad allenarsi per una settimana con il suo idolo, Isaiah White, nel suo campo d’addestramento in mezzo al nulla. Isaiah vuole ritirarsi, ma vuole addestrare il prossimo GOAT prima di farlo.
Qui l’horror comincia per davvero — insieme alla parte più marcata della metafora sportiva e sociale di Justin Tipping. Allenarsi con Isaiah richiede portare tutto all’estremo, richiede sacrificio. Il medico personale del quaterback (Jim Jefferies) inietta a Cam il sangue perfettamente ossigenato di Isaiah per prepararlo fisicamente a una serie di sfide man mano più pesanti — e crudeli. Per prepararlo fisicamente ma, soprattutto, mentalmente a tutte le sfide che comporta l’essere il numero uno. Compreso l’addestramento da social media con la moglie di Isaiah (Julia Fox).
I simboli, i sogni, lo stile
Nella maggior parte dei film horror, i protagonisti rifuggono l’ignoto, cercano di scappare dal terrore. Him non è quel tipo di film. Sebbene la creatività compositiva di Tipping lasci spazio a qualche “spavento vecchio stile”, la paura che ci monta è quella dell’inevitabile. Sappiamo già che Cam sarà disposto ad affrontare l’inferno per raggiungere il suo obiettivo. E, un pollice alla volta, è verso l’inferno che ci spinge il film.
All’inizio, appena arrivati nel campo d’allenamento di Isaiah, ci infastidiva l’idea che il protagonista non si comportasse in maniera logica. Succedono cose davvero inquietanti durante gli allenamenti — lui però sembra ignorare tutto. Ed è questo il punto. Lo sport americano (e i film che lo raccontano) mitizza da sempre il tema del sacrificio: il campione è quello che mette in prima linea la propria salute, il proprio tempo, la propria vita. Per vincere bisogna essere disposti a tutto. Anche a farsi male, anche a farlo agli altri: non importa il dolore che ci seguirà dopo la partita, importa arrivare al touchdown.
Tipping, quindi, si dimentica i dettami di un horror classico per portarci in un mondo onirico, dove i simboli ci colpiscono in continuazione. Forse a volte con troppa insistenza: sembra che la trama prosegua più con degli “e poi…” piuttosto che con degli “e quindi…”, cosa che rallenta forse un po’ troppo il ritmo. Per fortuna, che questo film ha stile da vendere.
Vediamo inquadrature complesse, prospettive forzate, composizioni potenti. Ci hanno particolarmente convinto le “immagini a raggi X” quando ci sono gli scontri di gioco (e non solo), che fanno vedere esattamente dove si rompono le ossa ed iniziano le emorragie. Una visione ancora più viscerale perché “scientifica”: la realtà del male che si stanno provocando supera il terrore di vedere l’attore disperarsi o il sangue schizzare verso la telecamera.
Pochi pollici dal touchdown
Quando andiamo al cinema, ci facciamo emozionare dalle immagini (ed Him è pieno di colpi da maestro), ma soprattutto quando sappiamo di dover scrivere una recensione c’è una parte di noi che resta sempre attenta alla trama. Più volte, durante la proiezione, ci siamo annotati mentalmente problemi di ritmo o mancate conseguenze logiche nel film. Ma la verità è che non ci siamo annoiati nemmeno un secondo. Il film prosegue di metafora in metafora, di simbolo in simbolo — è più un “film d’arte” che un film sul football. Per la maggior parte, però, funziona.
Non ci piace che un film ci ripeta lo stesso concetto troppe volte — ma se lo fa bene come Him, siamo disposti a perdonare. Siamo meno inclini, però, a dimenticarci un finale non guadagnato. L’ultima scena sorprende non per quanto sia cruda e caricare di orrore (e non temete, lo è). Piuttosto, ci sembra che seppur cruda non sia abbastanza crudele. La metafora di Tipping colpisce non tanto per la violenza, ma perché prosciuga ogni speranza. Quindi, perché non andare fino in fondo?
Il finale sarebbe stato perfetto per il film che ci eravamo immaginati prima di entrare, il “Get Out del football americano” promesso dalla presenza di Jordan Peele. Ma stona un po’ con l’allegoria del costo del successo nella società americana creata da Tipping.
Nonostante la scarsa coesione narrativa e il finale che ci ha un po’ deluso, restano tantissimi motivi per vedere Him. Le prestazioni sono tutte di livello, specialmente quella di un Marlon Wayans (che magari potrebbe fare la parodia di sé stesso per il prossimo Scary Movie). La regia di Tipping, poi, ci è sembrata ricca ma non priva di gusto — abbiamo capito perché Peele ha deciso di puntare su di lui. Se amate l’horror soprattutto quando è complicato, vale la pena andare al cinema: non tutte le belle giocate finiscono in touchdown. Ma non per questo non ci piace vederle.
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