Carceri, Mezzatesta e Virzì: "All'Ucciardone ogni giorno aggressioni e umiliazioni, intorno solo silenzio"
Un timpano perforato, dita forse irrimediabilmente compromesse, costole fratturate, divise insanguinate, risse, rivolte, olio bollente. È la cronaca quotidiana delle carceri italiane, dove uomini e donne della Polizia Penitenziaria pagano un prezzo altissimo per servire lo Stato. Eppure, a fronte di questa violenza crescente, cala un silenzio assordante: nessuna indignazione, nessuna presa di posizione forte. Come se fosse normale. Ma non lo è.
Lo storico carcere dell’Ucciardone, oggi intitolato al maresciallo Calogero Di Bona - rapito e ucciso dalla mafia - detiene un triste primato: 30 agenti aggrediti in appena sei mesi. Dentro quelle mura hanno operato figure simbolo come Attilio Bonincontro e Pietro Cerulli, e lì è rimasto vivo il ricordo di Giuseppe Montalto, assassinato in un vile agguato alla vigilia di Natale. Storie che gridano una verità: il silenzio è il primo alleato della violenza. Oggi le sezioni penitenziarie sono un miscuglio ingestibile: detenuti psichiatrici, tossicodipendenti, giovani e comuni convivono in spazi promiscui. In gergo si dice “separare le acque”.
Qui, invece, si mescolano fino a diventare tempesta. Il personale non ha colpe: è ridotto all’osso, costretto a reggere un sistema al collasso. Va riconosciuto lo sforzo del governo con le nuove assunzioni e il sostegno dei comandi di reparto. Ma non basta. Non può bastare. Viviamo un tempo paradossale: si concede spazio mediatico persino al figlio del più sanguinario boss di mafia, mentre resta inascoltata la quotidiana caccia all’agente dentro le carceri. Ai carnefici si dà voce, ai servitori dello Stato si volta le spalle.
“Il silenzio fa paura oggi come ai tempi delle stragi di mafia - dichiarano Maurizio Mezzatesta, Segretario Nazionale Cnpp, e Filippo Virzì, Dirigente Nazionale Ugl -. A morire non sono solo i corpi, ma la dignità di chi serve lo Stato. Indignarsi non è retorica, è un dovere civile. Perché ignorare queste aggressioni significa tradire non solo gli agenti, ma l’intero concetto di giustizia. La polizia penitenziaria non chiede privilegi ma rispetto, tutele e condizioni di lavoro umane. Chiede che lo Stato non resti muto”.