di John M. Grondelski
La seconda lettura di domenica scorsa – per l’Esaltazione della Croce, che ha anticipato la 24^a domenica del Tempo Ordinario – era il grande inno di San Paolo sullo svuotamento di Gesù, la sua kenosis (Fil 2,6-11). Uno dei testi chiave di quell’inno è il versetto 6, dove Gesù è presentato come colui che tratta la divinità non come qualcosa da “afferrare” (ἁρπαγμὸν).
Gesù è Dio. Ma Gesù non si ‘aggrappa’ a quella divinità, “ma piuttosto svuotò se stesso… [assumendo] la forma degli uomini”. Gesù non è geloso del fatto che la sua incarnazione lo «sminuisca», anche se comporta uno «svuotamento». Infatti, se leggiamo l’inno, vediamo come Gesù compia molteplici svuotamenti di sé: diventando uomo; diventando servo; diventando obbediente; diventando obbediente «fino alla morte»; diventando obbediente alla morte con uno dei metodi più brutali, dolorosi e prolungati di morire. A causa di questi progressivi svuotamenti, Gesù riceve molteplici esaltazioni: essere risuscitato; ricevere un Nome sopra ogni altro; ricevere un Nome confessato da tutta la realtà; ricevere onore che va «alla gloria di Dio Padre».
L’inno ai Filippesi ci mostra, attraverso l’esempio di Cristo, una verità fondamentale della vita cristiana: che si trova il proprio vero io lasciando andare se stessi, svuotando se stessi, rifiutando di «afferrare» ciò che si è. Gesù esemplifica questa verità assumendo l’umanità sebbene fosse divino. Egli ricorda ai suoi discepoli: «Chi cerca di salvare la propria vita la perderà, e chi la perderà la troverà» (Mt 10,39). Chi si aggrappa alla propria vita la perderà; chi non la tratta come «qualcosa a cui aggrapparsi» la troverà. Egli mostra come l’umiltà sia essenziale per la vita spirituale.
Gesù è divino. Svuotando se stesso, non si aggrappa al bene supremo, il Summum Bonum: se stesso.
Cosa facciamo noi, esseri umani caduti? Qualcosa di ancora più insensato. Mentre Gesù non ha «afferrato» la divinità, noi ci aggrappiamo stupidamente al «vecchio uomo» (cfr. Ef 4,22). Se Gesù non si aggrappa alla divinità, perché noi ci aggrappiamo a un’umanità caduta, al «vecchio Adamo», al sé peccatore? Questa intuizione è fondamentale in un contesto in cui la mentalità della Chiesa contemporanea sembra preferire una mezza verità: la teologia dell’«accompagnamento». Sì, la Chiesa è chiamata a camminare con tutte le persone di tutti i tempi. Il suo compito è quello di portare tutti («tutti, tutti, tutti», come dice Papa Francesco) a Cristo. Ma questo compito non si realizza «affermando» le persone «là dove sono». Si realizza piuttosto sfidandole a non aggrapparsi ai loro modi attuali, a non aggrapparsi al vecchio Adamo, ma a metterlo da parte, a «rivestirsi di Cristo» (Rm 13,14). Non si tratta di «affermare» i loro stili di vita, ma di trasformarli.
Come ho ripetutamente sottolineato, il primo comandamento di Gesù è quello del pentimento (Mc 1,15), il cui termine greco è metanoiete. Il significato letterale di questa parola è “cambiare idea”. Ma metanoiete non è un cambiamento superficiale di opinione, come quando ieri non mi piaceva il blu e oggi mi piace. Metanoiete significa pensare in modo diverso, cambiare la propria visione delle cose, guardare alla realtà, al mondo e alla propria vita in modo diverso, sotto l’impulso della grazia di Dio. “Pensare in modo diverso” alla vita umana significa mettere da parte “i desideri della carne”, il “vecchio Adamo”, il “vecchio uomo” del peccato. Significa smettere di aggrapparsi a quelle realtà, smettere di “afferrarle”, svuotare se stessi di ciò che – a differenza della divinità di Cristo – oggettivamente non è buono per noi.
Eppure il «mistero dell’iniquità» (Rm 7,19) è che in realtà ci aggrappiamo al vecchio io. Questo, naturalmente, porta a un’inversione dei valori morali e della verità stessa, così che fingiamo che la «Chiesa» sia «alienante» perché ci esorta a smettere di aggrapparci a un vecchio modo di vivere e a cambiare idea sulla verità della vita umana. Questo – non una superficiale psicologia popolare del tipo «io sto bene, tu stai bene», illuminata da luci stroboscopiche e spettacoli laser – è ciò che comporta il vero «accompagnamento» e la «fraternità». È il fallimento nel dire queste verità fino in fondo che rende spesso incomplete le verità offerte con questi termini. Ci dà un Cristo contraffatto, una mascotte terapeutica che benedice i tuoi peccati e non ti chiede mai di convertirti. Questa non è né misericordia né umiltà. È codardia.
Il conformismo al mondo e ai suoi valori (o, piuttosto, anti-valori) non è genuinamente umano o umanistico. Come Papa San Giovanni Paolo II non ha mai smesso di ripetere, il grado in cui un essere umano diventa più genuinamente umano e quello in cui segue Cristo sono in relazione diretta, non inversa. E seguire Cristo significa mettere da parte – smettere di “aggrapparsi” – al vecchio uomo. Gesù, che «rivela pienamente l’uomo a se stesso» (Redemptor hominis, 8), gli mostra già quella via non «aggrappandosi» a se stesso, ma assumendo la forma di un servo obbediente.
Allora, perché ci aggrappiamo al vecchio uomo, al veleno spirituale, al peccato?
(L’articolo che il prof. John M. Grondelski ha inviato dagli Stati Uniti al blog è apparso in precedenza su New Oxford Review. La traduzione è a cura di Sabino Paciolla)
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