

Per ottanta anni l’oblio collettivo aveva oscurato la memoria e l’onore dei 650mila ragazzi che tra il 1943 e il 1945 rifiutarono l’arruolamento nell’esercito di occupazione tedesco e in quello di Salò e perciò furono deportati in Germania, ma ora che lo Stato italiano ha ritenuto di risarcirli simbolicamente, dedicandogli una Giornata nazionale, l’intera classe politica li ha ignorati. Nei due giorni dedicati, il 19 e il 20 settembre, non una parola è stata pronunciata dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, non una parola è venuta dalla segretaria del Pd Elly Schlein o da esponenti dem, non una parola da Giuseppe Conte e dai capofila delle altre formazioni del campo largo.
Tutti i leader politici – di solito così ciarlieri, così pronti a scattare ogni giorno su qualsiasi questione e su qualsiasi anniversario – stavolta hanno mantenuto un totale riserbo. L’unica voce che si è alzata è stata quella del presidente della Repubblica che, ventiquattro ore prima della Giornata nazionale del ricordo degli internati militari italiani, ha voluto ospitare una cerimonia al Quirinale. E qui, davanti agli storici e alle Associazioni che nei decenni avevano tenuta viva la memoria, ha focalizzato la questione storica con un discorso, come sempre, chirurgico nella scelta dei concetti e delle parole. In particolare sulla scelta di quei 650 mila ragazzi: “La confusione seguita all’8 settembre poteva indurre a scelte diverse, più convenienti” e invece “un così alto numero merita di essere sottolineato, anche perché non si è formato sulla base di un ordine, di una indicazione istituzionale, ma è sorto da una loro personale, consapevole scelta”. E dunque la decisione del Parlamento di istituire la Giornata ha un doppio valore. Da una parte “nella memoria della Repubblica viene impresso, e definito, un segno di grande importanza. Un segno che rafforza – in quanto la completa – la radice della democrazia conquistata dal nostro popolo” e dall’altro sana una sorta di “sfortuna storica”: si “rende pienamente onore ai militari italiani che ebbero il coraggio di pronunciare il loro No al nazifascismo, pagando un prezzo personale altissimo e subendo, al termine della guerra, una sorta di oscuramento della loro resistenza, travagliata ed eroica”.
In effetti, dopo l’armistizio dell’8 settembre la storia era stata molto eloquente: oltre un milione di soldati italiani, in Italia e all’estero, furono catturati dagli ex alleati tedeschi, circa 100mila si dichiararono “optanti” e cioè decisero di giurare fedeltà a Hitler e combattere per la Germania e la Repubblica di Salò, mentre ben 600mila di loro respinsero le lusinghe e furono portati nei campi di prigionia in Germania e altri se ne aggiunsero nel corso dei due anni.
Un “no” spinto da diverse motivazioni: l’astio contro i tedeschi, la fedeltà al giuramento al regio esercito e comunque per tanti giovani anche una scelta ideale, ovvero, come ha scritto lo storico tedesco Gerhard Schreiber, una scelta politica. Una pagina storica che nel dopoguerra venne oscurata da chi, in particolare il Pci, temette che la resistenza senza armi dei militari avrebbe inficiato il monopolio comunista sulla Resistenza armata. Ne sa qualcosa Alessandro Natta che nel 1954 propose agli Editori Riuniti, la casa editrice del Pci, di scrivere una storia degli internati e si sentì opporre un rifiuto. Esattamente 30 anni dopo Natta sarebbe diventato segretario del Pci e ne passarono altri 12 prima che riuscisse a pubblicare il suo L’altra Resistenza con Einaudi. Erano trascorsi 42 anni dal primo no.
Non sono stati pochi gli ex internati che hanno avuto un ruolo nella vita pubblica. Giovanni Guareschi, per esempio, che riuscì a scriverne nel suo Diario clandestino, Mario Rigoni Stern, Vittorio Emanuele Giuntella, Tonino Guerra, Alfredo Belli Paci. Lo spegnersi degli interessi di partito più vivi, la forza dell’epopea degli internati e l’ingiustizia subita sono tutti elementi che per diversi anni non sono bastati ad aprire la strada verso un riconoscimento simbolico di quella pagina di storia e alla fine è stato il vicepresidente della Camera, Giorgio Mulé, di Forza Italia a presentare un progetto di legge per l’istituzione di una giornata della memoria, che è stato approvato all’unanimità. Sembrava la premessa per un disgelo. Liliana Segre, che tra le altre cose, conosce molto bene la qualità della discussione pubblica, tre settimane fa, aveva detto: “Spero non diventi solo un esercizio retorico”. Ed invece è arrivata l’indifferenza. Nella cerimonia al Quirinale, oltre Mulé, erano presenti solo due ministri, Antonio Tajani e Guido Crosetto. Per il resto silenzio. Con diverse motivazioni. Per la destra ex missina il vero, persistente tabù non è il fascismo, ma l’antifascismo, la capacità di riconoscere il patriottismo e l’eroismo di chi si oppose al regime mussoliniano e da questo punto di vista i militari sono persino più “insidiosi” dei partigiani che presero le armi.
E quanto al “nuovo” Pd, oramai è evidente, intrattiene un rapporto complicato con la storia. Quasi che il “prima di noi” sia talmente ingombrante da far paura. Ingombrante per chi immagina il Pd di Schlein con l’idea dell’anno zero, ma lo è pure per chi fatica a misurarsi con un passato importante e ancora attuale. È capitato con i cento anni dalla nascita del Pci, anniversario ignorato. Con Giacomo Matteotti, Di nuovo con gli internati.
Quali che siano le diverse ragioni, il 20 settembre si è sublimata una involontaria unità nazionale nel segno dell’indifferenza. Un atteggiamento che rivela qualcosa che non era facile immaginare: la scelta di libertà, politicamente non etichettabile di quei giovani militari, a distanza di 80 anni spiazza ancora. È come se i ragazzi del ‘43 fossero restati ingombranti. Una storia triste.
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